La fenantrolina innesca la patogenesi della malattia di Alzheimer

 

 

DIANE RICHMOND

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 13 febbraio 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La ricerca sulla patologia molecolare e cellulare della malattia di Alzheimer continua a fornire dati rilevanti per la fisiopatologia ma, per ciò che concerne la patogenesi, non tutte le nuove acquisizioni trovano posto nell’ordine dello schema ormai classico di eventi e, nonostante gli sforzi di molti ricercatori, non è stato ancora possibile tracciare con certezza una linea sequenziale patogenetica che ordini tutti i fenomeni osservati.

In base a numerose evidenze sperimentali, l’opinione corrente attribuisce all’elaborazione alterata del βAPP (β-amyloid precursor protein) il ruolo principale, in quanto dalla βAPP disfunzionale derivano l’aumento delle morti cellulari dei neuroni, le alterazioni della neurogenesi e la perdita di sinapsi, che sono alla base della sintomatologia clinica. Nonostante scoperte considerate vere e proprie pietre miliari nel campo dello studio dei farmaci per questa patologia, rimane l’etichetta di malattia incurabile, perché fino ad oggi non sono state identificate molecole o strategie terapeutiche in grado di modificare realmente il corso della malattia e, dunque, anche quelle che apparivano come le più promettenti risorse nella ricerca preclinica, sono entrate poi nell’uso clinico come palliativi.

Alcune proteasi ADAM mediano l’elaborazione fisiologica e non-amiloidogenica dell’α-secretasi dal precursore βAPP, che genera la produzione di sAPPα. Studi precedenti avevano rilevato l’importanza di p53 nella neuropatologia dell’Alzheimer, sebbene una connessione diretta con l’attività delle metalloproteasi si ritiene non sia ancora stata sufficientemente provata.

Subhamita Maitra e colleghi hanno affrontato questo problema conducendo una sperimentazione con la fenantrolina, un farmaco antinfettivo e antineoplastico che agisce da inibitore generale delle metalloproteasi e da chelante dei metalli. I risultati sono di notevole interesse.

(Maitra S., et al. Phenanthroline impairs βAPP processing and expression increases p53 protein levels and induces cell cycle arrest in human neuroblastoma cells. Brain Research Bulletin – Epub ahead of print doi: 10.1016/j.brainresbull.2021.02.001, 2021).

La provenienza degli autori è la seguente: Institute of Molecular Biosciences, Mahidol University, Nakhon Pathom (Tailandia); National Center for Scientific Research, Paris (Francia).

Prima di riassumere i risultati dello studio di Maitra e colleghi si propone, a scopo introduttivo, una parte del testo di un nostro articolo recente:

“La malattia di Alzheimer, la più comune[1] e grave demenza neurodegenerativa, costituisce una categoria nosografica definita in base ad elementi patogenetici e clinici comuni, ma in realtà costituita da forme diverse per eziologia, che può essere esclusivamente genetica (forme familiari) o multifattoriale e prevalentemente indeterminata (forme sporadiche); per esordio, che può essere precoce, presenile[2], nell’età media della vita oppure in età senile o più spesso nella tarda senilità; e per fisiopatologia: può presentare entrambi i contrassegni istopatologici descritti da Alzheimer e Perusini, ossia placche amiloidi neuritiche e grovigli neurofibrillari intraneuronici, oppure uno solo dei due, presentandosi come tipo con placche soltanto (plaque only type) o come taupatia senza placche evidenti associata a demenza[3].

La maggior parte dei ricercatori che ritiene irrilevante la differenza causale di fronte ad una patogenesi pressoché identica in tutte le forme suppone che, nella sequenza di eventi patogenetici, si possa identificare una tappa da bloccare per ottenere l’arresto della progressione in tutti i casi; fra coloro che considerano rilevante il primum movens etiologico, vi sono ricercatori che attribuiscono al rapporto biochimico fra evento causale e innesco della patogenesi un valore di conoscenza chiave per giungere a trattamenti (ed eventuali programmi di prevenzione) specifici per le singole forme.

In ogni caso, lo studio della genetica è importante perché, anche se le forme eredo-familiari costituiscono una esigua minoranza, anche in quelle ad eziologia ignota si suppone un ruolo non irrilevante del genotipo per lo sviluppo della malattia. Inoltre, la ricerca condotta soprattutto negli ultimi decenni sulle cause genetiche delle anomalie molecolari riscontrate, pur non essendo stata ancora decisiva per la comprensione dell’origine della maggioranza dei casi, ha fornito dati e nozioni di notevole interesse. Un esempio è l’identificazione da parte di St. George-Hyslop e colleghi, in pazienti affetti da forme ereditarie della malattia, di geni codificanti versioni alterate della APP (amyloid precursor protein) localizzati sul cromosoma 21 accanto al gene βA. Questa scoperta ha fornito una spiegazione per le alterazioni alzheimeriane – in passato interpretate come invecchiamento precoce – che si rilevano nel cervello di tutti gli affetti da sindrome di Down o trisomia 21 che vivano oltre i 28 anni: avendo tre copie del cromosoma 21, producono amiloide in eccesso.

Anche se la scoperta ha consentito di spiegare quel dato patologico interpretato come segno di invecchiamento precocissimo del cervello nella sindrome di Down, rende conto della probabile causa solo di una piccolissima frazione di casi eredofamiliari di malattia di Alzheimer che, a loro volta, costituiscono una piccola parte del totale. In altre stirpi familiari studiate per la presenza di casi ad ogni generazione, ereditati verosimilmente come un carattere mendeliano autosomico dominante, sono state identificate rare mutazioni nel gene della presenilina 1 (localizzato sul cromosoma 14) responsabili in alcuni studi fino al 50% dei casi familiari, e della presenilina 2 (localizzato sul cromosoma 1) responsabile di una quota degli altri casi ereditari[4].

La presenza di amiloide aberrante da sola non è in grado nel resto della popolazione di causare la malattia neurodegenerativa, così si sono studiati i geni associati quali fattori di rischio. Il primo ad essere scoperto fu “Apo E”[5], un regolatore del metabolismo lipidico che ha un’affinità per la β-amiloide delle placche neuritiche della malattia di Alzheimer e si è rivelato in grado di modificare il rischio di acquisire la malattia di Alzheimer. In particolare, fra le varie isoforme della lipoproteina, la presenza di E4 e del suo corrispondente allele ε4 sul cromosoma 19 è associata ad una probabilità tripla di sviluppare la malattia. Il possesso di due alleli ε4 sembra dare certezza della malattia a coloro che superano gli ottanta anni. L’allele ε4 modifica anche l’età di esordio di alcune delle forme familiari della malattia. Vari studi hanno dimostrato che, all’opposto, l’allele ε2 è poco rappresentato nelle persone affette da malattia di Alzheimer.

Anche se decisamente più raro delle varianti di Apo E, un polimorfismo in TREM2 conferisce uguale probabilità di sviluppare la malattia. Nelle forme sporadiche, questo polimorfismo è responsabile di un difetto di fagocitosi dell’amiloide che avviene nel normale ciclo fisiologico, contribuendo all’accumulo. Altri meccanismi ipotizzati per la partecipazione delle varianti di questo gene alla patogenesi non hanno ancora ricevuto conferma sperimentale.

Un’altra variazione genica, implicata sicuramente in forme familiari della malattia di Alzheimer, è stata registrata presso il sito dell’ubiquilina 1, cioè UBQLN1 codificante una proteina che interagisce con PS1 e PS2, oltre a partecipare alla degradazione proteasomica.

L’importanza dello studio della genetica si può desumere dagli importanti elementi di conoscenza che sono stati ottenuti dall’analisi di interi alberi genealogici di pazienti affetti dalla demenza neurodegenerativa.

Nei cenni storici sulle origini di questa patologia si cita sempre il caso di Auguste Deter, la paziente che morì a soli 55 anni e dal cui cervello Alois Alzheimer prelevò i campioni sui quali scoprì placche amiloidi e ammassi neurofibrillari, ma non si riporta di un secondo caso, pubblicato dal neurologo tedesco col nome di Johann F. e caratterizzato dall’assenza di degenerazione neurofibrillare, cioè il primo paziente affetto dal plaque only type[6]. Nel suo cervello, oltre ai segni generici di encefalopatia atrofica, si rilevavano solo gli accumuli macroscopici di amiloide extracellulare, denominati da Alzheimer placche senili, secondo la terminologia anatomopatologica dell’epoca. La ricorrenza della malattia nella famiglia di Johann aveva indotto a supporre già a quell’epoca una causa genetica. In questo secolo, quando i ricercatori impegnati nella ricerca del primum movens causale della malattia si dividevano in due fazioni, la prima sostenitrice della “teoria della β-amiloide” con capofila Dennis Selkoe e la seconda sostenitrice della “teoria della tau”, rappresentata dalla scuola di Rudolf Tanzi, si decise di andare alla ricerca dei discendenti Johann per verificare se fra loro vi fossero ammalati di demenza neurodegenerativa e studiarne esaustivamente il profilo biomolecolare.

In estrema sintesi, i sostenitori della “teoria della β-amiloide” ritenevano che i peptidi βA amiloidogenici, ossia quelli generati dalla scissione della γ-secretasi con una lunghezza uguale o superiore a 42 aminoacidi, innescassero tutte le catene di eventi culminanti in degenerazione, apoptosi e necrosi; i sostenitori della “teoria della tau” ritenevano che l’iperfosforilazione della proteina associata ai microtubuli tau fosse responsabile della sequenza di eventi che porta a morte i neuroni e consideravano le placche amiloidi delle semplici “pietre tombali” formate nelle sedi di distruzione del tessuto nervoso. Per i sostenitori di questa seconda tesi, i casi come quello di Johann, in cui vi erano solo placche senza ammassi neurofibrillari, erano dovuti a una causa da scoprire, ma sempre intraneuronica.

Klunemann e colleghi afferenti alla Clinica Psichiatrica dell’Università di Regensburg (Germania) riuscirono a rintracciare i discendenti del secondo paziente di Alzheimer, ne studiarono il profilo genetico secondo le acquisizioni più recenti di quegli anni, ricostruirono l’albero genealogico e poi chiesero l’aiuto di St. George-Hyslop[7]. I ricercatori fecero un lavoro straordinario: grazie a numerose tracce documentali reperite con l’aiuto delle famiglie dei pazienti, riuscirono a risalire lungo la linea degli antenati fino al 1670, ed elaborarono un fedele albero delle parentele che al 2007 contava 1403 discendenti. I quattro discendenti affetti da demenza all’epoca dello studio, la avevano ereditata come un carattere mendeliano semplice autosomico dominante. Klunemann, St. George-Hyslop e colleghi testarono i “geni di rischio dominanti” allora noti, ossia APP, PS1, PS2, PRNP e BRI, senza riuscire a trovare un allele già identificato come patologico[8]. Anche se questo studio non identificò la causa genetica dell’Alzheimer di quella stirpe, contribuì alla demolizione della dicotomia β-amiloide/tau. Infatti, se il primum movens sono i peptidi βA, in grado di innescare reazioni che portano nei neuroni all’iperfosforilazione della tau con conseguente degenerazione fibrillare seguita da distruzione degli assoni e poi del corpo cellulare neuronico, come e perché avviene la distruzione neuronica con gli stessi esiti clinici senza la distruzione della tau? La conclusione ipotetica della nostra scuola neuroscientifica è che ci si trova di fronte a patologie diverse che non differiscono solo nell’innesco eziologico ma anche, sia pure in parte, nella patogenesi.

Per dirimere queste questioni sarà necessario scoprire i meccanismi molecolari che mediano gli effetti dei molteplici fattori causali e, visto che le alterazioni molecolari e i processi patologici finora esaminati si sono rivelati quanto meno insufficienti ad orientare delle risposte, si è proceduto attraverso analisi del trascrittoma, i cui risultati hanno suggerito nuovi progetti di ricerca. Finora, però, non è stata condotta nessuna analisi ai vari livelli del processo di trascrizione per scoprire reti di co-espressione caratterizzanti la malattia di Alzheimer. Tale studio è stato condotto da Cong Fan e colleghi, con risultati interessanti”[9]

Ma torniamo al lavoro qui recensito.

Come si è già accennato più sopra, vari studi hanno rilevato l’importanza di p53 nella neuropatologia degenerativa della malattia di Alzheimer, ma finora non è stato dimostrato un rapporto diretto con l’attività delle metalloproteasi. Subhamita Maitra e colleghi hanno indagato le conseguenze dell’inibizione dell’α-secretasi sullo status di p53 nelle linee cellulari SH-SY5Y di neuroblastoma umano in coltura, mediante specifici inibitori di ADAM10 e ADAM17 e dell’inibitore generale delle metalloproteasi e chelatore del metallo fenantrolina.

La sperimentazione ha consentito di stabilire che, al di là della capacità di tutti gli inibitori di interessare la produzione di sAPPα con gradi differenti di efficacia, la fenantrolina specificamente e con andamento dose-dipendente riduceva l’espressione di βAPP – un fenomeno correlato con un forte aumento dei livelli della proteina p53 e un concomitante decremento della degradazione di p53 da parte della proteasi calpaina.

I ricercatori hanno poi rilevato che il trattamento delle cellule con concentrazioni di fenantrolina simili a quelle inducenti l’innalzamento dei livelli di p53, induceva arresto del ciclo cellulare causante apoptosi.

Nell’insieme, i risultati ottenuti in tutta la sperimentazione identificano nuovi ruoli della fenantrolina nel perturbare la βAPP, la p53 e la biologia della calpaina, e suggeriscono che l’uso di questo composto e dei suoi derivati nei trattamenti delle malattie infettive e neoplastiche potrebbe innescare la patogenesi della malattia di Alzheimer.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Diane Richmond

BM&L-13 febbraio 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] La prevalenza di 10.800 su 100.000 fra gli ultra ottantenni è stima ricorrente in vari studi condotti in tutto il mondo.

[2] In rare forme familiari sono stati descritti casi con esordio in età giovanile. Nei criteri diagnostici si considera un’età sempre superiore ai 40 anni.

[3] L’Adams e Victor’s, ossia l’attuale gold standard in neurologia clinica, ribadendo che è superata la distinzione fra demenza senile e malattia di Alzheimer (classificata in passato come demenza presenile perché la prima paziente di Alois Alzheimer aveva solo 51 anni all’esordio, e perché fino a qualche decennio fa si diagnosticavano come malattia di Alzheimer solo i casi a insorgenza precoce) propone di considerare related but separable le varie forme eredofamiliari finora accertate e descritte (Adams e Victor’s Principles of Neurology by Allan H. Ropper, Martin A. Samuels, Joshua Klein, 10th edition, p. 1063, McGraw-Hill, New York 2014). Non tutte le volte che si rileva un marcato declino cognitivo in età avanzata, con punteggi dei test corrispondenti alle prestazioni dei pazienti affetti dalla grave patologia neurodegenerativa, ci troviamo di fronte alla malattia di Alzheimer: il trattamento cognitivo con CACR (sistema computerizzato ideato dai coniugi Gianutsos con Luciano Lugeschi al Bellevue Hospital), nuove versioni o sistemi equivalenti, determina miglioramento e talvolta totale recupero nei casi non dovuti a neurodegenerazione alzheimeriana; presentazioni cliniche indistinguibili da quella della malattia di Alzheimer possono presentare la paralisi sopranucleare progressiva, la malattia a corpi di Lewy, la degenerazione cortico-basale, la malattia di Pick (ossia la degenerazione lobare fronto-temporale) e altre patologie neurodegenerative non alzheimeriane.

[4] Bateman R. J., et al. Clinical and biomarker changes in dominantly inherited Alzheimer disease. New England Journal of Medicine 367: 367, 2012.

[5] Il massimo studioso di questo fattore di rischio è stato Allen Roses, ai cui studi si rimanda per la dettagliata documentazione del percorso di ricerca che ha condotto alle conoscenze attuali sul ruolo di Apo E ε4.

[6] Costituisce uno specifico sottogruppo nella classificazione internazionale più spesso adottata.

[7] Note e Notizie 17-03-07 I discendenti di Johann paziente di Alzheimer.

[8] Cfr. Note e Notizie 17-03-07 I discendenti di Johann paziente di Alzheimer.

[9] Note e Notizie 28-11-20 Nella malattia di Alzheimer regolazione di geni e isoforme. Lo studio di Cong Fan è recensito e riassunto in questo articolo.